Sono BES, aiutatemi a trovare la mia strada

La Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 propone una visione della disabilità /assenza di disabilità, secondo il modello diagnostico ICF  (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale.

Cosa significa? Semplicemente che la disabilità non è una condizione assoluta, ma relativa allo stato fisico, psicologico e ambientale che la persona si trova a vivere nel qui e ora. Se ad esempio mi rompo una gamba e sono costretto a spostarmi in carrozzella, sarò disabile nella misura in cui le barriere architettoniche non mi consentano spostamenti autonomi. Se vado a vivere  in un altro paese,  sarò disabile nella misura in cui le mie competenze linguistiche non mi consentiranno di relazionarmi con il contesto. Se sono dislessico, sarò disabile nella misura in cui potrò accedere alle informazioni solo attraverso il testo scritto. Ma se ho la possibilità di usufruire di strumenti che compensano una criticità nella relazione tra me e l’ambiente, la disabilità non esisterà  più. Marciapiedi con lo scivolo mi permettono di  muovermi autonomamente  per la città, un mediatore linguistico può  consentirmi comunque di comunicare, un programma  con sintesi vocale mi da l’accesso a testi lunghi e complessi.

All’interno di questa nuova prospettiva si colloca l’alunno BES (con Bisogni Educativi Speciali), un  alunno che non può accedere agli apprendimenti così come la scuola li propone normalmente, ma ha bisogno di una mediazione. Le cause possono essere le più diverse e la difficolta può essere permanente o transitoria.  La direttiva ministeriale individua tre grandi sotto-categorie:  disabilità, disturbi evolutivi specifici e svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. Ma l’attenzione  non si focalizza più sulla certificazione di una disabilità, ma sull’analisi del processo d’insegnamento/apprendimento e sulla ricerca di strategie che consentano all’alunno di accedere allo studio con successo. Insomma si abbandona la prospettiva clinica a favore di un approccio educativo. È infatti il consiglio di classe che, sulla base della documentazione presentata dalla famiglia e sulla base di considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico, può redigere un PDP (Piano Didattico Personalizzato) che serva come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti e documenti  alle famiglie le strategie di intervento programmate.

Questa direttiva ministeriale  apre prospettive davvero interessanti per le famiglie con bambini/ragazzi che hanno difficoltà nello studio, dal momento che, di fatto richiede alla scuola progettare un percorso didattico individualizzato per tutti quei ragazzi che non ce la fanno da soli. Perché questo avvenga è necessario che famiglie siano sempre più consapevoli  di cosa rende difficile il percorso scolastico del proprio figlio e che i docenti siano sempre più preparati a gestire contesi d’apprendimento complessi e articolati. Una sfida interessante per il prossimo anno scolastico.

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